I capelli. Pensavo ne avessi un sacco. E infatti avercene, ne ha. Precisi, non ce n’è uno fuori posto. Fin troppo precisi, con tutto ‘sto casino di gente che e entra dall’ascensore. Sembrano incollati. I capelli. Vuoi vedere che ha il parrucchino? Se sapessi bene l’inglese glielo chiederei. Scusi, signor Bartrèinolds… Niente, l’inglese non lo domino, l’americano men che meno. Così a memoria non si neppur bene come si scrive il suo cognome. Bart è entrato con me, vuol dire che alloggia al mio stesso piano. Adesso ho diciotto piani da scendere in compagnia dell’uomo di “Un tranquillo week-end di paura”. Potrei fargli i complimenti ma non è il mio carattere attaccar bottone e tantomeno fare complimenti. Se uno è bravo lo sa, mica c’è bisogno di dirglielo… E poi, com’era il titolo originale? Penso al disco, la colonna sonora del film, quella con il famoso pezzo al banjo. “Deliverance”, ecco qual era il titolo. E il titolo di “Quella sporca ultima meta”? Quello non lo so proprio. Niente da fare, niente complimenti. Tanto non ne sarei capace. Chi non mi conosce bene non la penserebbe mai, ma io sono timido, sto nel mio, nelle circostanze non riesco a dominare appieno.
Quindicesimo piano, continua a salir gente. Questo mi sembra di averlo visto. Saluta Bart. Fonzi! Ma certo, è Fonzi trent’anni dopo! Com’è conciato! Sembra sua madre. Di Bartrèinolds. Fonzi è facile, quello lo so scrivere: Fonzie. Sta facendo la regia di un film con Bartrèindols, l’ho letto da qualche parte. Forse non era Fonzi. Forse era Riki. Riki, Fonzi e Bart. Che nomi del cazzo. Forse è per questo che sono qui anche loro, a Los Angeles, nel giorno più importante dell’anno. Cos’ha da guardarmi adesso? Bart mi sta fissando da qualche secondo. Ma la cosa più imbarazzante è che mi fissa non proprio in faccia. Più giù. Più giù ancora… Faccio il punto della situazione. Sono in un ascensore di un grande albergo di una grande città degli Stati Uniti. In un grande giorno. Grandemente imbarazzato. C’è il grande Fonzi. C’è il grande Bart che mi fissa, diciamo, le zone inguinali con insistenza. Non è una cosa tanto frequente. Abbassa appena gli occhi per vedere se ho lasciato qualcosa di aperto. Tutto in ordine. Ecco, ora sorride. Parte in quarta e si avvicina con le mani protese al punto che stava osservando. Devo dire che di Bartrèinolds lo sospettavo, ma non lo facevo così invadente… Ecco, è il momento dell’impatto. Come lo respingo, adesso? Gentilmente. No, tenkhiu. Niente di preconcetto, ma non è il mio genere. Non ce n’è bisogno: Bart ha deviato impercettibilmente. Sta stringendo la mano a Denny De Vito. Non me n’ero accorto stavo quasi seduto sulla testa di Denny De Vito. Il fatto è che non se n’era accorto neanche lui. Questa me la segno. E’ il 31 marzo 1992. Pomeriggio. Non ne posso più, che tutto finisca, che arrivi la notte. Troppo casino.
Ora sono nella hall dell’albergo. Siamo pronti per andare. Passa Jack Nicholson. Sorrisino. Faccio finta di non conoscerlo. Anche lui fa finta di non conoscermi. Lui, De Vito, se ne sta ancora dietro di me, non me n’ero accorto. Siamo tutti abbastanza eccitati. Ma non è niente in confronto ai giorni scorsi. Stavamo girando “Puertos Escondido”, in Messico. Una situazione tranquilla. A un certo punto arriva una telefonata. Candidati all’Oscar come miglior film straniero. “Mediterraneo” l’abbiamo girato due anni fa. Per noi fa già parte del passato. D’accordo, è un film a cui siamo molto legati, perché non come con “Marrakech Express” ci siamo trovati bene a lavorare insieme. Ma non ce l’aspettavamo proprio. Il gruppo di Mediterraneo era più o meno il medesimo di “Puertos Escondido”, quello storico di Gabriele Salvatores. Anche lui non si aspettava la nomination. Siamo partiti in fretta e furia per Los Angeles. Con noi c’è Ugo Conti mio amico dall’infanzia e a sua volta attore del cast Mediterraneo. E Maurizio Totti nostro socio-produttore e, soprattutto per me, qualcosa di più. E poi c’è Rita, mia ex moglie, oggi compagna di Salvatores. E Giulia, la mia attuale compagna. Un gruppo strano, a vederci fuori. Ma anche dentro. In realtà, di strano per noi in questi giorni c’era soltanto l’abbigliamento. Bisognava trovare i vestiti per la premiazione. Smoking, abiti lunghi. In Messico, per il periodo riprese di Puerto, ci eravamo portati dietro abiti da lavoro: costumi da bagno, scarpe da pallone, cappellacci alla Indiana Jons non esattamente consimili a un gran gala. Fino all’ultimo ho rischiato di andare alla premiazione in smoking calzando un paio di espadrillas. Poi, pagando, tutto si è sistemato.
Ecco, adesso siamo qui. Sono le 15.55 del 31 marzo. Gabriele ha poco più di quarant’anni ma questo non mi scuote. Io ne ho trentasette (e questo mi scuote un po’ di più), quasi tutti vissuti a Milano, zona Giambellino. Che zona fantastica, ma non è una gran bella zona. Siamo qui. Emozionati, un po’ ma neanche tanto. Curiosi, curiosissimi, quello sì. L’albergo è fantastico, mica per niente hollywoodiano. Camere faraoniche. Siamo tutti stra-in-forma: rispetto alle star più famose del mondo sembriamo noi quelli al centro della festa. Abbronzati, smaglianti: veniamo dal Messico, deserto che purifica, mare intonso. Incoscienti abbronzatissimi. Siamo qui spalla a spalla con Bartrèindols, che ha più capelli di Salvatores. Ma saranno suoi? “E quanto li avrà pagati?” mi chiede Gabriele con lo sguardo perso nel vuoto.
Arriva l’immancabile limousine, quella grande, infinita. C’è una bella luce, un cielo terso. La cerimonia incomincia alle cinque. Il percorso è lungo; tutto distante, a Los Angeles. La limousine avanza adagio. Noi ci guardiamo in televisione perché naturalmente c’è un televisore sull’auto. Ci guardiamo mentre andiamo, insieme a tutte le altre macchine ci inquadrano da un elicottero. E un corteo, quasi. Tutte le auto partono dagli alberghi e si incanalano sulla strada che porta all’Academy. C’è una manifestazione gay lungo il percorso. Non vedo Bart, parecchi però hanno il parucchino. Manifestano cogliendo l’occasione delle riprese televisive, per qualche diritto, non ricordo bene nello specifico. Il corte procede lento tra civilissimi e colorati manifestanti. Salvatores mi sembra particolarmente interessato. E’ risaputo lui ha un debole per il sociale.
Era bello perché tu tiravi giù il finestrino e vedevi il grande regista, il grande attore. Harrison Ford dentro a una macchina, Denny De Vito dentro un’altra. Forse. A un certo punto ci accorgiamo che c’è il bar a bordo.
Io non sono una che si emoziona molto, però era davvero una situazione un po’ strana, tra l’altro eravamo sicuri di non vincere. Per noi l’esser lì era già gratificante. E con questa storia del bar a bordo, in coda, in una macchina dove sei lì a cazzeggiare…in sei a parlare col whisky, la televisione. Sembrava di essere in un qualsiasi locale sotto casa. Un bar semovibile, mancava solo il biliardo. Però era affascinante. Anche perché tutti quelli che vedevi intorno era in qualche modo tuoi colleghi. Anche se tu lo sapevi e loro no. C’erano tutti, ma proprio tutti.
L’unico che non ho visto era Barbareschi. Strano… Alla fine arriviamo davanti all’Academy molto rilassati e divertiti.
La discesa. Sulla macchina che ci precede c’è De Niro. Poi tocca a noi. Nessuno sa chi siamo, ma nel duccbio…nel passaggio alla macchina fino all’ingresso è tutto un flash. A destra e a sinistra, pieno di fotografi, c’è qualcuno che rallenta, dalle nostre parti. E’ Warren Beatty che vuole camminare vicino a noi! E’ il giorno del suo compleanno. E’ anche quello di Ugo Conti, tante volte è il caso… Io sono nato il venti maggio, stesso giorno di James Stewart. E soprattutto di Al Bano. Tante volte il caso…